GLI ZOMBIE CHE SIAMO


Lory Del Santo non va al funerale del figlio suicida per non giocarsi il Grande Fratello Vip però va in un altro programma a piangere; spunta subito anche il padre del ragazzo, “con cui la soubrette non si sente da anni”, che non si fa sfuggire l’occasione e manda una lettera a “Pomeriggio 5”. La casinista Nadia Toffa, in fama di giornalista d’assalto, tiene una sorta di diario visivo con cui ragguaglia tutti sul decorso della sua malattia, sconfitta con robuste dosi di chemioterapia dopo avere consigliato a milioni di curarsi coi rimedi magici, esoterici, poi ci fa su un libro e per venderlo dice: il cancro è un dono. La sorella di Stefano Cucchi, il giovane tossicodipendente massacrato in galera, sceglie un settimanale scandalistico, “Chi”, per far sapere che si è fidanzata col suo avvocato; tempo prima aveva ricondotto la morte del parente, occorsa 9 anni fa, a Salvini. La tutto e niente Asia Argento nutre chi la segue e se stessa delle proprie miserie planetarie con una ostinazione pubblica che non conosce tregua. 

Che succede? Succede il decorso fisiologico di una miseria di massa, succede lo sfruttamento delle disgrazie personali e familiari a fini di notorietà possibilmente affaristica, ma in modi insani, malati a loro volta, da turbe psichiatriche. Succede la fine di ogni pietà come era ampiamente nel divenire delle cose. 

Siamo oltre la televisione del dolore codificata da Aldo Grasso, oltre anche la televisione dell’idiozia dei poveretti che dal letto di ospedale “perdonano” chi gli ha mozzato un orecchio, li ha sformati di botte o si è presa la vita dei loro cari; siamo alla televisione della sfiga e della miseria, con licenza di abbindolare chi la segue perché la sofferenza è di per sé plausibile, credibile e ironizzarci sopra o attaccarla risulta di cattivo gusto anche se il gusto, pessimo, è di chi si espone. 

Sono processi agevolati, indotti anche dai mutamenti tecnologici, dai quali è impossibile retrocedere, una volta che si sono affermati si può solo peggiorare. 

Una sorta di autosciacallaggio che non si tenta neppure più di mascherare con intenzioni nobili. La notorietà, vista in passato come una sirena insidiosa e ambigua, poi come opportunità da cogliere, è diventata un dovere morale e sociale, una condizione esistenziale, sociale; un prerequisito per qualsiasi obiettivo. Non esisti se non speculi sui morti, sangue del tuo sangue, addirittura sulla tua morte parziale, sfiorata, scongiurata. Almeno Sandra Milo con la pantomima di “Ciro, Ciro” metteva in atto una cialtronaggine, fingeva un dramma che non c’era. Qui i drammi ci sono ma si rivoltano in puro racconto, emotivo ma al fondo anodino, quasi oggettivo: mi è mancato qualcuno, mi è successo questo, sono qui a raccontarlo.
I media, televisioni in primis, “non gli dicono no”, come nella canzone della Bertè, perché lo spettacolo della sfiga e del dramma è rinnovabile, deperisce nel caso singolo ma, basta constatare i necrologi pomeridiani e anche mattinieri, si rigenera in una sfortuna, in una tragedia se possibile più violenta, più incredibile e magari ingiusta. La Del Santo aveva già avuto un figlio piccolo morto per disgrazia a 4 anni: un secondo che si toglie la vita a 19 sembrerebbe esperienza di tale spaventosa assolutezza da stroncare definitivamente chi la subisce, invece viene superata quasi senza viverla, rimuovendola, all’ultimo bacio al cadavere, allo spettacolo abissale della bara che si chiude si rinuncia, si preferisce l’ingaggio al reality. 

Inutile prendersela con la Del Santo, consigliare, come ha fatto Piroso, una terapia “da uno bravo”: c’è proprio una mutazione genetica che, come sempre nelle faccende di sociologia elementare, parte dal vip e, a mezzo gossip, si diffonde negli strati bassi, nel prato basso dei desideranti, degli sconosciuti. 

Guardavo ieri la abusata “gente”, categoria ineffabile per quanto è scomodata, e mi pareva di non riconoscerla più, mi parevano zombi ed io una potenziale vittima: niente più li distingueva dai peggiori saltimbanchi dello spettacolo, tatuaggi orribili, artigli dai colori della morte, vestiti da scemi, comportamenti incontrollati, discorsi completamente illogici; molti vanno addirittura al di là dei più strambi ed inquietanti pagliacci televisivi. Non potevano, non possono più essere considerate eccezioni, è la normalità che non esiste più o se si preferisce è la nuova normalità dell’anormale e dell’anomalo, del volgare, anche del laido. Poi mi ha preso il sospetto di essere anche io uno zombi e non sono più stato tanto sicuro di essere diverso neppure nell’etica. Già vado raccontando la lunga resa di una madre devastata: mi consolo dicendo a me stesso che è deformazione professionale, che debbo sempre raccontare, scrivere tutto, che in fondo un blog o una bacheca social non è un pulpito televisivo. Ma sempre più sospetto di mentirmi, diffido di me stesso e non sono affatto sicuro che, in una condizione di maggiore riscontro, saprei negarmi, saprei recuperare la razionalità etica la cui sparizione generale vado lamentando. 

Gli zombi che siamo sono cambiati, sono altro da noi. Il problema è che nessuno ha idea di dove ci porti questo pasto nudo dei nostri cadaveri, questo darci in pasto ad altri cadaveri che osservano, che invidiano, che non aspettano altro che di trasformarsi in zombie attivi, autocelebranti.

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