IL GIORNALISTA BANDITO


Ma è ancora possibile fare questo mestiere in Italia? Diciamo il mestiere del giornalista che sarebbe quello di informare, di dire, nei limiti del possibile, le cose come stanno e la risposta è no, non più e comunque ogni giorno di meno. Prendiamo una cronaca recentissima, la truculenta rapina nella villetta di una coppia di Lanciano in Abruzzo: entrano in quattro, li legano, li pestano, vanno via poi tornano e tagliano un pezzo d’orecchio alla moglie, li lasciano maciullati, lui quasi ammazzato a legnate, come un animale. La dinamica è quella tipica, sperimentata delle bande balcaniche ma per giorni e giorni nessuno lo dice, non si vuole tradire il politicamente corretto, nessuno si sente di incorrere negli strali di chi legge, di altri colleghi omogeneizzati e perfino dell’Ordine che certe cose le proibisce nero su bianco: e se poi non sono balcanici, chi ne esce vivo? Eppure una ipotesi si potrebbe buttare là, se questo mestiere ha ancora un senso, se l’esperienza della cronaca ha un peso. Ma non si azzarda nessuno. Fino a che li catturano e allora si vede che, effettivamente, sono tre balordi balcanici, rumeni, gli stessi che a Lanciano più o meno tutti mormoravano perché responsabili di altre rapine similari. Ma i resoconti dei cronisti in batteria non hanno neppure registrato le voci, i timori, passava sempre la solita intervista di un vecchio rapinato, somigliante al maestro di musica Gianni Mazza, ma bene attento, lui e chi lo interpellava, a non lasciarsi sfuggire ombra di sospetto politicamente scorretto.

Intanto parte la grancassa umanitaria, anche se a volte non si capisce bene verso chi. Comunque i pifferi migranti, che incredibilmente dicono: sì, i rapinatori sono rumeni ma il capo è un italiano, un pugliese. Chissà perché pugliese, si vede che nell’immaginario del giornalista collettivo è sinonimo di delinquente, di bandito. 

Così che via social si diffondono le scemenze più deprimenti: la banda rumena ma italiana, i balcanici sottoposti al pugliese, tutti questi giri di parole, melliflui, penosi, per non dire che i migranti sono comunque vittime, che il male vero, puro, ce l’abbiamo in corpo. Mai visto un popolo così incline a odiarsi da solo, e, se non lo fai, se ti sottrai, passi in fama di sovranista che fa rima con fascista. Anche questo un bel mistero della logica, della verità.
Mentre si cerca il pugliese infame, chiedono ai due massacrati se perdonano e ovviamente quelli perdonano, lei con dei distinguo un po’ confusi, “Io sì perdono ma lo Stato no non deve”, lui che, tumefatto com’è, quasi al punto da non riuscire a parlare, però precisa che lui una pistola non la comprerebbe mai, perché a proteggerlo ci deve pensare lo Stato. Auguri. Alla fine prendono anche il quarto, il capo: rumeno pure lui, il pugliese, sul quale “tutti” giuravano, non esiste, era una fake news ma subito se ne dimenticano tutti; a chi lo fa notare, rispondono che è astioso, che ce l’ha coi migranti, che è pieno d’odio e di livore, che è un Salvini. E non sono solo i cari colleghi scremati e impacchettati in tetrapack, sono anche i lettori comuni: non dirmi la verità, non la voglio sapere, consolami coi miei pregiudizi, con le ricostruzioni di comodo, le allucinazioni collettive, confortami negli errori. Rimosso il giornalismo come mediatore sociale, come testimone possibile della realtà e sentinella di democrazia, oggi si vuole, si esige il cronista pubblicitario che si spertica e mente sapendo di mentire, che parli di una banda di criminali balcanici o della romagnola Pausini. 

E allora si capisce che fare questo mestiere è diventato impossibile perché non esiste più e nessuno più lo vuole, non chi lo fa, non chi lo fruisce. L’autocensura stupida, la lobotomia ideologica hanno prevalso. 

Un cronista di un tempo avrebbe capito subito e subito riferito cosa stava dietro una rapina violentissima, oggi si preferiscono i toni volutamente ciechi ma enfatici, i sentimenti bugiardi che nascondono una finta competenza, militante e pilatesca ma al fondo stupida, a mezza strada tra Internazionale e Barbara d’Urso.

Lascia un commento